
Con il naso all’insù osservavo il cielo. Assaporavo la sua infinita spaziosità, tanto vasta da permettere al pensiero di perdersi in essa. Ero così piccolo di fronte a quell’immensità, vivevo ad una velocità talmente infinitesimale da potermi equiparare solo ad un respiro nel bioritmo dell’Eternità senza confini. Eppure sapevo di esser vivo, di esser presente in quel preciso istante, sebbene mi sentissi solo, attorniato da altri respiri di dimensione finita, apparentemente ignari di quanto ci stesse succedendo intorno. La normalità fittizia di questi giorni, la pace armata dei sensi, la guerriglia che si combatte silenziosa contro l’ultimo nemico invisibile dell’umanità sembrava non sfiorasse chi, come me, era intento ad osservare il cielo. Li sentivo parlare intorno a me, soffocati dall’ennesima bugia raccontata dalla scatola magica che trasmette le notizie, preoccupati del clima e degli incendi, straniti dal caldo anomalo, perplessi di fronte alle restrizioni che li incatenano alla loro personalissima museruola variopinta. Per un attimo ho avuto l’impressione di essere l’unico a capire il cielo. Tutti lo guardavano, ma quasi nessuno lo vedeva per com’era realmente. Erano tutti li, pronti ad affidare ad una roccia errante i loro desideri più profondi e vacui. Come se un sasso che viene consumato dall’atmosfera potesse regalare loro quella gioia che non riuscivano a trovare in loro stessi. Come anime vuote, ottenebrate dal fantasma delle vacanze compromesse, stritolate dalla menzognera convinzione di essere liberi, tutti pronti ad accontentarsi di quelle stelle scadenti. Di qualità talmente miserabile da non potersi caricare dei loro sogni, talmente effimere da bruciare in una scia che dura poche frazioni di secondo. Esseri infelici, mi attorniavano come gusci di piombo, con le anime cieche e sorde, incapaci di mettere a fuoco il disegno generale. Esseri ad un passo dalla digitalizzazione forzata voluta dai loro padroni. Sistemi operativi pronti per l’ennesimo aggiornamento inutile, cellule corrotte che attendono solo di esser riciclate in nome dell’ambientalismo transumano che le consuma. Le fiale che gli stanno svuotando sotto pelle li stanno trasformando in automi semoventi, incapaci di reagire agli stimoli esterni, passivi di fronte alle minacce del mondo oligarchico che li vorrebbe ancora più apatici, del tutto asserviti alle teorie dell’annientamento programmato. Accanto a me sentivo parlare con naturalezza di quanto fosse facile, e doveroso, e socialmente obbligatorio, presentare il marchio verde. Cose se si trattasse di una patente, un lasciapassare per la vita stessa. Carcerati felici di aumentare i giri di catene intorno ai loro colli, quasi supplici nel domandare agli aguzzini altre inaccettabili vessazioni. In fondo cosa sono due punture, o tre, o quattro, o dieci. I numeri sono numeri, scarabocchi organizzati nelle loro menti. E intanto gli elementi estranei si annidano nel loro corpi, rendendoli schiavi di un sistema che li disprezza. E tutti con il naso all’insù, a ridere, inconsapevoli della tacita accettazione della loro sentenza di morte, ma complici, e terribilmente colpevoli, più del boia che sta affilando la scure. La morte striscia in mezzo a noi, silenziosa come una serpe tra l’erba alta, i denti carichi di veleno, aghi ipodermici pronti a sprizzare il loro contenuto tossico. La mia mente e il mio cuore avrebbero voluto urlare, ma loro erano sordi, non avrebbero capito le mie parole, non sarebbe servito a nulla gridare la mia costernazione per il loro sonno anestetico. Mi avrebbero guardato come tante creature allucinate, domandandosi quali parole stessero fluendo dalla mia bocca, e perché i miei occhi stessero per velarsi di lacrime. Ma, purtroppo, non avrebbero capito. Ormai il veleno, e la sua silente accettazione, strisciava in loro. Le proteine che riprogrammeranno le loro menti stanno già agendo, appiattendo pensieri e stimoli, facendo poggiar loro, delicatamente, la testa sul ceppo, in attesa che cali la scure che troncherà le loro sofferenze e le loro misere speranze credulone. Nulla sarà come prima, il nostro mondo è debole, affaticato e zoppo, ha perso la forza di reagire. Non trascorrerà molto tempo prima che ogni uomo sia trasformato in un segnale elettrico distorto, una sequenza binaria da controllare e spegnere a piacimento. Il denaro verrà soppiantato dall’apparente meritocrazia donataci dallo Stato, il sudore con cui abbiamo accumulato quanto possediamo scivolerà dalla fronte e brucerà raggiungendo gli occhi. Allora chiuderemo anche quelli, ormai proprietari del nulla. Neppure della nostra vita. La libertà abbiamo permesso che si uccidesse, le abbiamo stretto noi il cappio intorno al collo, e siamo stati noi a dare un calcio allo sgabello su cui si reggeva a stento. Quando la sua fiaccola è caduta a terra si è spenta, smettendo di illuminare il suo viso, ormai cianotico e deformato. E la nostra stessa esistenza farà la stessa fine. Rimarranno solo impulsi in rete, esseri umanoidi con il DNA degli schiavi digitali che aneliamo essere. Agglomerati di atomi senza memoria, privati di quella parte di società che avrebbe dovuto ricordarci per cosa aveva combattuto in gioventù. E un popolo senza memoria è un popolo finito. Doneremo ai nostri vecchi la melliflua siringa dell’eutanasia, permetteremo al Male di eliminare ogni possibilità di redenzione. Saremo noi i carnefici di noi stessi; “SVEGLIATEVI!”, avrei voluto gridare, ma sarebbe stato solo fiato sprecato. Il monito di un folle non sarebbe stato ascoltato, gli spettatori di quel circo non sospettavano che sarebbero stati gettati tra le fiere per il ludibrio dell’Imperatore luciferino che li aveva invitati alla sua festa. Eppure avrebbero già dovuto accorgersi che i soldati e i leoni stanno sbranando chi non può difendersi, e che non si fermeranno. Qualcuno, forse i più inclini all’insensata obbedienza richiesta dal potere, passerà anche dalla loro parte. I persecutori attingeranno dal bacino dei perseguitati per rimpolpare le proprie schiere, in una lotta fratricida che andrà a caccia del momentaneamente diverso. Stavo per esser avvolto dalla tristezza, compresso com’ero in quella morsa di parole votate al nulla, ma poi, d’improvviso, qualcosa ha solcato il cielo. Era una di quelle rocce che peregrina per il cielo, pronta ad immolarsi per strappare un sorriso all’umanità. Allora ho capito: se una stella senza coscienza può mutare l’empatia di un uomo verso l’Infinito, allora cosa potrà fare Colui che è Onnipotente, e che ha deciso di regalarmi la visione di quella stessa stella. Ho chiuso gli occhi e mi sono abbandonato a Lui, motore infallibile dell’Universo, Padre affettuoso che non vuol veder vacillare neppure il più distante dei suoi figli imperfetti. Con gli occhi chiusi ho rivissuto quel fugace lampo di luce che ha squarciato il cielo. La Speranza, la Fede, la Gioia non devono mai abbandonarci, esattamente come meteore si palesano ai nostri sensi per ricordarci che non siamo soli, e che Qualcuno, lassù ha comunque ben salde le redini della Storia. Il male è transitorio, ma il Bene è eterno, e, anche se a volte non riusciamo a comprenderlo, la spinta positiva dell’Universo si serve di quella negativa per controbilanciare le nostre cadute e farci ascendere a più alti livelli di coscienza. Ho riaperto gli occhi, e, nello statico buio in cui mi sono ritrovato, ho sorriso. Ogni rumore, ogni voce, tutto era sparito intorno a me. L’unica cosa che era rimasta era l’impressione luminosa che quella stella cadente aveva lasciato sulla mia retina. Non ero solo, Dio mi aveva carezzato l’anima.
Ringrazia il Padre Eterno per questo dono dello Spirito Santo!
“La Sua lode sempre nella mia bocca”.
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