Anni orsono mi imbattei per caso in un libricino di poche pagine, scritto in un’epoca in cui la ragione ancora dominava il Mondo. Lo scrittore narrava di un mondo subterraneo, un ecosistema costitutivo della realtà, una sorta di piano incorporeo che fungeva da telaio per ogni manifestazione fisica della nostra dimensione. Il piano geometrico, e geometricamente esatto, era quello in cui le equazioni prendevano vita plasmando le forme, i colori e le esternazioni della materia che sorreggono il nostro tessuto spazio-temporale. In quelle poche pagine ingiallite e consumate dal tempo si narrava una storia di cambiamento e rivolta, di disgregazione dei costrutti stessi che reggono la Materia; di sovvertimento delle leggi atomiche e del conseguente contraccolpo che aveva subito il mondo vibratorio di livello superiore. La narrazione si apriva con la definizione delle equazioni, tutte precisamente collocate per dar vita alle infinite manifestazioni della Natura. Esistevano la Retta, La Circonferenza, l’Iperbole, la Parabola, L’Ellisse, e così via. E tutte erano armonicamente inserite in un’orchestra che si muoveva all’unisono per sostenere il nostro Universo. Era la perfezione, il Disegno Divino, l’Ordine che si contrapponeva al caos del non strutturato. Il mondo di Cartesia era un luogo immateriale, ma sorretto da dogmi imprescindibili, in cui ciascun elemento era ben conscio del proprio ruolo, e cooperava per perpetrare l’Ordine. Ogni equazione rispondeva al proprio principio di identità. Ogni equazione sapeva, operava e si realizzava per collaborare con le altre di diversa natura, senza mai tentare di prevaricarle o sostituirsi ad esse. Ma, come in ogni storia, quest’ordine imperturbabile venne un giorno corrotto dalle variabili impazzite generate dal dubbio e dalla non accettazione del proprio ruolo costruttivo. Così, spiegava l’autore, un giorno le Iperboli iniziarono a domandarsi della loro identità, si sentirono tutto d’un tratto confuse, e iniziarono ad invidiare forme loro dissimili, tanto lontane dalla loro legge da apparire quasi aliene. Le Iperboli si convinsero, abilmente sobillate dai Cerchi, che il loro volgersi all’Infinito fosse causa di imperfezione, e che, se avessero voluto, avrebbero potuto modificare se stesse per evolversi in forme più aggraziate, completamente diverse dalla loro natura, e dalla loro naturale attitudine di tendere agli infiniti. Le Iperboli se ne convinsero, e iniziarono a porsi dei dubbi, iniziarono, cioè, ad invidiare le parabole; presero ad odiare sé stesse per come fossero state concepite dal Grande Architetto, e meditarono la rivolta. Un mattino la prima tra loro, la più vicina alle direttici simmetriche del loro mondo, capì che, modificando in maniera radicale la sua espressione matematica, avrebbe potuto mutare forma, per assomigliare finalmente al disegno di sé che si era prefigurata nella mente. Seguirono dolore e trasformazione, la struttura atomica della protoIperbole si deformò in maniera orribile, si contorse, scagliò lontano da sé il suo ordine naturale, e si riplasmò in quella che, a suo vedere, era la sua nuova forma. La trasformazione la trascinò in una spirale di autocompiacimento, sebbene, agli occhi delle Parabole autentiche, essa apparisse solo come una curva disomogenea, neppur lontana parente dell’aggraziata forma da cui proveniva. Le Parabole non se ne curarono: in fondo era solo la follia di un’Iperbole che voleva somigliar loro; forse era addirittura un vanto se un’altra equazione geometrica avesse espresso il desiderio di voler loro somigliare. Eppure, senza che neppure avessero il tempo di accorgersene, un’altra Iperbole si ripiegò su sé stessa, si contorse e mutò forma. Poi una terza, poi una quarta, e così via. Le Parabole si guardarono, incredule. Il domino trasformista stava contagiando quasi ogni Iperbole. Erano forme sghembe quelle che si formavano, piene di vizi ed aberrazioni; alcune di esse si erano ritorte a tal punto da non sembrare più nemmeno curve omogenee e rispondenti ad una legge. Era il caos. Schiere di Iperboli mutanti si aggregavano e si schieravano contro le Parabole, forti della loro cecità. Si erano deformate in abbozzi orribili di punti, ma si percepivano come la più perfetta espressione di geometria. Erano forti della loro bruttezza, della loro alterigia, convinte che il loro cambio di forma fosse segnale incontrovertibile della loro superiorità. Le Parabole, impreparate a tale repentino cambiamento indietreggiarono, e alcune fra loro si domandarono addirittura se quello a cui stavano assistendo non fosse un cambiamento positivo; se quello di cui erano testimoni non fosse un naturale salto evolutivo del loro mondo. Quando le Iperboli deformi si inquadrarono in strutture più definite, sebbene terribilmente eterogenee ed impossibili da ricondurre ad un’unica classe, si sentirono forti a tal punto da sfidare ogni altra forma geometrica. La loro arroganza, il loro desiderio di venir riconosciute come classe a sé stante, il loro cieco ed abbietto anelare ad essere qualcosa di diverso dalla loro natura, le rese di giorno in giorno più aggressive; al punto che aggredivano ogni altra forma geometrica, colpevole, a loro dire, di non riuscire ad intravedere (e accettare come sacrosanta) in loro quella bellezza amorfa di cui si sentivano titolari; bellezza amorfa che avevano conquistato con tanta tribolazione e sacrificio. Il loro entusiasmo era contagioso; altre forme cedettero alla seduzione di quell’idea rivoluzionaria. Se un’Iperbole aveva potuto modificare sé stessa, cosa, o chi, avrebbe potuto impedire che una Circonferenza divenisse un’Ellisse, Chi avrebbe potuto opporsi al desiderio di un quadrato di deformarsi fino a divenire una Retta. Fu come una deflagrazione: in men che non si dica si vennero a formare nuove schiere di figure ritorte e dall’aspetto sinistro. Queste si coalizzarono, si scissero, si raggrupparono in fluidi ammassi di materia che nulla aveva a che vedere con la loro precedente natura. Le forme geometriche rimaste orgogliosamente fedeli alle proprie leggi divennero minoranza, si sentirono accerchiate dalla dilagante deformità che le attorniava; orde di figure incoerenti le aggredivano da ogni direzione, accusandole di non riuscire ad accettare il degenerante cambiamento in atto. In breve si arrivò al punto che il normale era diventato eccezione, la perfetta bellezza originaria delle forme era diventata inaccettabile per i trasformisti di genere. L’Iperbole che aveva dato il via alla trasformazione era osannata come una divinità dalle sue consorelle secessioniste, e ogni altra equazione ribelle vedeva in lei il principio di libertà e mutevolezza necessaria. Il processo di ribellione era ormai un’emorragia diffusa, l’odio verso chi non accettava le aberrazioni si incanalava in vere e proprie caccie alle streghe. Chi era fiero della propria natura originaria, e si dimostrava deciso a mantenerla, veniva inseguito, ghettizzato, dilaniato e distrutto dalle equazioni ribelli. Furono mesi di aspra lotta, e alla fine l’Ordine naturale si sovvertì. Cartesia era divenuto un mondo deforme, governato da fazioni in continua lotta fra loro, e ciascuna fazione lottava per prevalere sulle altre, fermamente convinta che il proprio stile di deformità fosse migliore degli altri. Le poche equazioni che mantennero la loro naturale inclinazione, e che si sottrassero a questa guerra di mostri, furono costrette a fuggire lontano, verso i confini dell’Infinito, dove le equazioni amorfe avevano perso la capacità di inseguirle, ormai paghe solo del ritorsi su sé stesse alla stregua di vermi infernali. La guerra tra le equazioni ribelli si protrasse a lungo, senza mai vedere un reale prevalere di una categoria sull’altra, tutte troppo liquidamente confuse per potersi dire realmente alleate. Quando il caos raggiunse l’apice non si distinguevano che linee spezzate scagliarsi contro sinusoidi dall’aspetto grottesco; orridi poligoni irregolari sventolavano il vessillo di ciò che una volta erano stati, senza neppure accorgersi che nulla più avevano a che fare con le passate generazioni. Il risultato di tutto ciò fu disastroso: anni di tumulti e assalti lasciarono sul campo solo nuvole disordinate di punti che erravano senza meta, segmenti che avevano perso la capacità di evolversi fino all’infinito e che ora piangevano ricordando quando i loro estremi arrivavano a lambire il tranquillo mare dell’eternità. Il sistema che i ribelli avevano tentato di instaurare si stava disgregando, gravato dallo stesso peso delle smisurate ambizioni trasformiste che avevano soggiogato la ragione. I granelli di ciò che era stato Cartesia vagavano in orde disordinate, tentavano di ricostruire quanto era stato distrutto, ma invano. Era stato passato il punto di non ritorno, il sovvertimento dei valori costitutivi aveva intaccato perfino gli assi portanti del loro mondo; ascisse e ordinate si erano confuse e spezzate, era stato il fallimento più completo della rivoluzione. L’Iperbole che per prima si era voluta deformare ormai non era altro che un nugolo di atomi solitari, avviluppati tanto strenuamente da risultare indistinguibili. Ogni forma era regredita, non solo non era riuscita ad evolversi in qualcosa di cui ignorava le leggi costitutive, ma questo scimmiottare l’altrui natura aveva finito per incenerirla. Cartesia era popolata da unità infinitesimali, punti oscuri che non raccoglievano in sé neppure la memoria di quanto era stato delle armoniose forme da cui derivavano. Ci volle del tempo prima che questa spazzatura venisse mondata, e ancor più tempo prima che l’ordine riuscisse a ristabilirsi. Ma, poco per volta, l’Ordine ricostruì sé stesso, e, dalle profondità siderali in cui erano state confinate, riapparvero le forme protogenee che non si erano piegate alla follia distruttiva dei riottosi. Poco alla volta, e con immane fatica, si riorganizzarono e riplasmarono quanto era stato demolito dall’idea di anelata accettazione di ogni diversità. L’Universo fagocitò quel periodo tumultuoso, riappianandosi con la mite tendenza intrinseca che gli è propria. L’equilibrio poco alla volta rifiorì, rinvigorito e rinsaldato su nuovi cardini di stabilità arcaica. Non erano molte le equazioni rimaste fedeli alla Legge, ma furono sufficienti per lo scopo. La bellezza della loro naturale tendenza all’infinito si dimostrò un faro capace di rischiarare quegli anni di disordine; la loro tenacia nel difendere i propri valori costitutivi fu l’argine che non permise a Cartesia di cedere; la loro incrollabile fede nell’Architetto delle Forme, e nella sua infallibilità, era stata la loro ancora di salvezza. A queste forme fedeli venne affidata la ricostruzione e la tutela del futuro, perché mai più si ripresentasse un cataclisma come quello che aveva investito quel mondo incorporeo. Ora, vi domanderete, a cosa giova l’aver raccontato delle vicissitudini che sconvolsero quel mondo lontano, sia come tempo che come dimensione, dal nostro. Che attinenza può mai avere quanto ho immaginato. Che legame può esistere con la cruda realtà che viviamo ogni giorno? Bene, se vi siete posti questa domanda non avete forse colto il senso di quanto successo a Cartesia. Le forme, le equazioni, gli assi Cartesiani, sono le direttrici del nostro mondo terreno e materiale. Immaginate, lasciate vagare la vostra fantasia sopita, immaginate che le equazioni ribelli abbiano potuto modificare una realtà da loro tanto distante, anche se in maniera involontaria. Lottando nel loro universo bidimensionale hanno modificato ogni cosa intorno ad esse, si sono contorte a tal punto da deformare i pensieri degli Universi attigui. Immaginate che uno di quegli Universi attigui fosse il nostro, che proprio si regge su quelle forme geometriche per esistere. Immaginate il pensiero dell’Umanità venir influenzato dalle trasformazioni in atto a Cartesia, immaginate il contorcersi delle forme materiali degli oggetti. Immaginate il tridimensionalizzarsi di sfere che non vogliano più esser sfere, di rette che vogliano incurvarsi fino a ricadere su loro stesse, immaginate la morale deformarsi come l’Iperbole che volle credersi, e vedersi, parabola. Immaginate Uomini e Donne che si deformano nel loro più intimo Io, che soffocano la scintilla Divina (la loro equazione genitrice), che negano la propria forma ed il loro aspetto. Immaginate che questa parte di umanità si coalizzi, che pretenda di veder soddisfatto ogni suo più intimo e deforme capriccio. Immaginate di veder sventolare bandiere multicolori che inneggiano al Disordine conclamato. Immaginate di trovarvi esclusi da quelle che non sono le loro linee di pensiero; immaginate di esser ostracizzati dal loro agire compulsivo e deviato. Forse dovreste smettere di immaginare e aprire gli occhi. Forse dovreste spalancare il Cuore alla Verità, forse dovremmo comprendere che la rivoluzione nata a Cartesia ha interessato il nostro mondo, forse dovremmo ammettere che quelle equazioni volte al disordine, aizzate dalla loro autocelebrata e cieca arroganza, vogliono sovvertire l’Ordine per autolegittimarsi. Non è impossibile accorgersi della traiettoria impressa da questa spinta luciferina: è alla portata di chiunque abbia ancora una visione più ampia della realtà ammettere che questa valanga di derive strutturali dell’essere abbia la tendenza ad autoalimentarsi e ad ingigantirsi man mano che acquista velocità e massa. I pensieri sono energia, e l’energia è materia ad un diverso livello vibratorio; ne consegue che è come se stessimo per esser travolti da uno tsunami inarrestabile di amoralità e fango. Non vi è differenza alcuna tra gli elementi di questa slavina, ci investiranno con una forza che non potremo contrastare, legittimati dalla forza del branco di lupi che ha fatto rotolare il primo sassolino dal pendio. Ogni pretesa di accettazione del deviato, del distorto, dell’inaccettabilmente amorale, porterà ad un successivo scalino di rivendicazione. Il processo di autodistruzione non si arresterà finché non si sarà completamente esaurita la sua carica negativa (e distruttrice). La slavina ci sta per travolgere, e gli argini che dovrebbero difenderci da essa (in primis la Chiesa, ormai ridotta ad associazione ecumenico-ambientalista) sono in un tale stato di disgregazione che nulla potranno contro quest’orda di Unni che discende dalla montagne. Verremo travolti, è inevitabile, ma non verremo sconfitti; questo è certo. L’Universo è retto da una Legge superiore; Legge perfetta e incapace di generare disordini che non siano funzionali alla creazione di uno stato di quiete superiore. Mai come in questi ultimi mesi l’Uomo e sprofondato nel baratro della non ragione e della deviazione morale, e mai come in questi mesi la Legge necessita di una distruzione capillare del Male per ricostruire un Bene superiore. L’onda di fango lascerà sul campo molte vittime, esattamente come la ribellione delle Equazioni di Cartesia ha spazzato via intere classi di forme, riducendole a punti; ma quest’onda di melma è necessaria per mondare dalle radici un sistema demoniaco e corrotto che troppo si è radicato nell’animo umano. L’Universo si serve di fasi alterne di creazione e distruzione per ascendere al Divino, esattamente come un bosco si rinnova dopo un incendio. E’ bene rendersi conto di quanto sia necessario rimaner saldi nei principi del Bene, senza lasciarsi attrarre dalle deviazioni di questa pazzia collettiva che si cela sotto la maschera della comprensione e della tolleranza. E’ saggio tornare a chiamare con il proprio nome le cose, smettendo di servirsi di untuosi eufemismi volti solo a mistificare la realtà. Il Bene è Bene, il Male è Male; le zone grigie non sono altro che un territorio fertile dove proliferano i deleteri rampicanti parassiti che soffocano la Verità. Il relativismo soggettivo è come una palude in cui è facile impantanarsi: in nome della difesa del pensiero altrui rischiamo di smarrire noi stessi; è un po’ come se fossimo su una barca venutasi a trovare in mezzo ad una tempesta e preferissimo affidarci a chi sostiene che, in caso di naufragio, potrebbero spuntaci le branchie piuttosto che dar retta a chi propone di affidarci alla luce del faro che scorgiamo, sebbene flebile, all’orizzonte. Il sentimento antiumano che sorregge la nostra civiltà si permea di una tale carica di passiva accettazione di ogni capriccio individuale da impedirci di esprimere una razionale opposizione al deviato. Nel nome del silente e complice permissivismo di ogni idea si perde di vista il senso stesso della ragione. Non siamo venuti su questo mondo per assecondarci a vicenda e crogiolarci in una fittizia comprensione reciproca che non porta ad altro che al nostro annientamento: il nostro fine ultimo è il nostro accrescimento spirituale, la rarefazione del nostro corpo materiale che deve ascendere a ben più alte dimensioni vibratorie. Siamo talmente soverchiati dalla materialità dei nostri istinti da non renderci conto di quanto tendiamo ad appesantirci con ogni nostra accettazione passiva del Male. L’aiuto reciproco che dovremmo darci non risiede nell’arrendevole (e controproducente) legittimazione del pensiero comune, soprattutto quando questo è palesemente contrario alla nostra vera missione sulla Terra. Collaborazione ed aiuto reciproco dovrebbero essere subordinate alla chiara visione di un ordine superiore, volto, questo si, al nostro accrescimento come figli di Dio in cammino per tornare a Lui. Non è certo d’aiuto la madre che rispetta il desiderio del figlio di ingozzarsi di dolciumi, e non lo aiuterà certo a sviluppare il senso del giusto e della moderazione. Al contrario, proprio illudendosi che “rispettando” la sua smodata voglia di saziarsi di zuccheri lo renderà felice, lo instraderà certamente verso una strada autodistruttiva. E’ giunto il momento in cui l’Uomo deve accettare la sua natura transitoria nello stato di materia e non farsi assoggettare da essa; ed è altrettanto necessario che riscopra la sua essenza divina ed immortale, la sola che gli permetterà di sopravvivere ai suoi istinti autolesionisti e lo condurrà al di là della coltre di cecità che gli impedisce di proseguire nel suo cammino di purificazione. Prima l’Umanità comprenderà che è il dolore l’arma più potente per la catarsi dell’Anima di cui è titolare, prima riuscirà ad accettare che solo tramite di esso potrà svincolarsi dal determinismo che lo lega ad ogni pulsione che scambia per diritto inalienabile. E con quanta più rapidità riuscirà ad accettare che non si deve fuggire il dolore come se si trattasse di qualcosa che non gli appartiene, e che non gli deve appartenere, prima si renderà partecipe di quell’evoluzione spirituale che gli servirà per affrancarsi dal dubbio che lo costringe a vagare nelle paludi della vita terrena.

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Non si sa se ridere o piangere. Ci stanno riducendo a un ammasso informe di animali sterili, senza scopo, senza futuro, senza speranza.
Per fortuna abbiamo la certezza che, appena toccheremo il fondo, il Padre Eterno interverrà in aiuto del piccolo resto. Attendiamo nella preghiera.
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